Le persone che nascono critiche nella vita finiscono, prima o poi, tumulate emotivamente dai loro contemporanei. Di cristo dentro un globo di neve ne nasce uno ogni generazione ma difficilmente hanno la grazia, l’intelligenza, la forza, la beffarda ironia di Frances Farmer. Ne ha cantato Kurt Cobain dedicandole uno dei suoi pezzi più viscerali, Frances Farmer will have her revenge on Seattle, rispolverando la sua figura di “martire” a noi bambini degli anni ’90. È stata la magnifica e sofferta icona di svariati film e riviste, nonché una delle esponenti più sfortunate del sistema hollywoodiano prima del suo crollo.
“Do you think you’ll be the guy/ To make the queen of the angels sigh?” cantava Jim Morrison e indubbiamente Frances è stata una grande perdita per il cinema in cui tutto il potenziale era palpabile in Come on and Get It di Howard Hawks e William Wyler, ma ridurla a semplice vittima sarebbe un approccio sbagliato, anche se in linea con questi tempi di siparietti #metoo.
Frances Farmer era l’emblema della rivolta, della vita antisociale, di quella generazione vibrante che, a cavallo tra le due guerre mondiali, aveva inventato i giovani e questi ultimi reclamavano con un fervente spirito il loro posto nella Storia. La parabola della Farmer sembra uno scherzo di cattivo gusto. La sua concezione della vita era qualcosa di unico. A diciotto anni, nella sua Seattle, vince con il saggio God Dies un concorso di scrittura creativa. Atea, intellettuale dalla mente sempre in fermento, giornalista in erba, accusata di simpatizzare coi comunisti, la giovane Frances con l’eleganza di Katherine Hepburn e la bravura di Greta Garbo, sogna di lavorare in teatro ma prima trova un contratto con la Paramount Pictures e gira alla fine degli anni ’30 i migliori film della sua carriera.
Su quella terra blasonata di Hollywood, Frances riscontra la stessa intransigenza bovina della sua città natale. Ha lo spirito di un poetessa beat senza la tenerezza di Kerouac; scuote le fondamenta della società di lustrini rispondendo al conformismo con dignità, logica e, se necessario, con un certo grado di combattività à la Hemingway. Assale con ogni mezzo, fisico e mentale, la vita mentre questa risponde ridacchiando. Insoddisfatta dal cinema e dai ruoli che si ripetono sempre uguali, prende congedo per sette mesi per buttarsi contro quel dirupo che è il suo destino. Golden Boy, la commedia scritta da Clifford Odets, le fa trovare il giusto successo in giro per il paese con il Group Theatre. L’incontro con il drammaturgo Odets e la rottura dopo la passionale parentesi la spingono verso l’alcolismo.
Ma Frances, a differenza di altri personaggi sfortunati dell’industria cinematografica, non è “mezza innamorata della confortevole morte” e continua, in modo discutibile, a inserirsi in un mondo che la respinge. Ciò nostante perde l’ingaggio con il Group Theatre per il suo comportamento sempre meno prevedibile, a Hollywood viene relegata in ruoli dignitosamente deludenti o in produzioni di serie B. Seguono una serie di arresti tra il ’42 e il ’43, di cui l’ultimo per avere picchiato una parrucchiera su un set, dalla Paramount era passata a una casa di produzione minore, da lì in poi i successivi sette anni sono di cliniche psichiatriche che, come una Lou Reed ante-litteram, la segneranno inevitabilmente.
Ecco, a me tutta la storia di Frances Farmer che ovviamente non finisce qui (torna al cinema, si sposa più volte, e a soli 56 anni muore di cancro all’esofago) mi ricorda di quanto sia più sensato vivere fuori dalla società e che, forse, se le paladine del femminismo odierno avessero il carisma e la lucida consapevolezza di non “poter vincere” contro lo zeitgeist, ne usciremmo tutte un po’ più sagge senza per forza pretendere la catarsi da una denuncia tramite hashtag.
Frances Farmer non è stata solo la cavia di una insensata terapia elettroconvulsivante, frutto di un’epoca in cui c’era una cieca fiducia nella psichiatria (a tal proposito recuperate il documentario Titicut Follies di Frederick Wiseman); o di una madre disfunzionale che l’ha abbandonata in clinica e in tal modo degna di rivaleggiare con Joan Crawford come madre dell’anno; o di quella mentalità da provincia che non sembra conoscere confini; ma è stata uno dei casi più eclatanti di manipolazione mediatica. Per rendere più spendibile la sua storia, in modo che tutti si arricchissero, la già orribile esperienza della Farmer fu rimaneggiata e venduta in chiave pornografica al limite del genere rape and revenge. Perciò infangata due volte, in vita come nella morte. Non fu mai vittima di lobotomia transorbitale così come non ci sono prove di stupri di gruppo tra i pazienti della Steilacoom, la clinica dove rimase la maggior parte della degenza forzata.
Eppure tutto questo non diminuisce la gravità delle esperienze subite da una delle stelle più luminose che vissero, seppur brevemente, su pellicola. Se al giorno d’oggi la manipolazione tramite media dovrebbe scatenare una forma di consapevolezza, riflessione e cambiamento sociale, in realtà la sua funzione è sempre vendere un prodotto costruito a tavolino per la gioia di tanti, l’indignazione di alcuni e una angoscia esistenziale formato stories di Instagram. Per fortuna Frances Farmer ha avuto la sua vendetta su Seattle, l’ultimo film che ha girato, The Party Crasher (Gioventù inquieta), dà prova di composta forza e bravura e, per un po’, ha lavorato in tv con un programma tutto suo, Frances Farmer Presents. Morendo prima di completare la sua autobiografia, aveva in parte alzato bandiera bianca e rinunciato a quelle dimostrazioni di coraggio contro un mondo ottuso e chiuso a paratie stagne.
Ma stai tranquilla Frances, d’altra parte la società non sembra avere un gran futuro, così come il tuo odiato cinema hollywoodiano.