La prima volta che ho capito quanto il problema dei capelli, per le donne di colore, fosse davvero un problema, cioè uno di quelli che creano disagio e vergogna, è stata leggendo le pagine iniziali di Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie.
Nel romanzo Ifemelu, nigeriana in trasferta in America, in previsione del ritorno a Lagos, si va a far fare le treccine africane da una parrucchiera afroamericana e il resoconto delle loro lunghe chiacchierate attorno alla forma dei propri capelli mi è parso formidabile.
Partiamo da questo presupposto: i capelli, in Africa e nelle culture associate, hanno sempre avuto un valore simbolico potentissimo.

Sin dal periodo pre-coloniale, i capelli sono stati vettori di messaggi in quasi tutte le società africane, per indicare l’età, la religione (i dreadlocks nel rastafarianesimo giamaicano, ad esempio), il grado d’appartenenza a un particolare gruppo etnico (i nodi zulu sono un’acconciatura dei Zulu del gruppo etnico Bantu, ad esempio) o persino lo stato civile (le donne nigeriane che vivevano in una casa poligama avevano creato un’acconciatura per prendere in giro le loro co-mogli chiamata Kohin-Sorogun, che significa “voltare le spalle al tuo rivale geloso”, le vedove in Ghana smettono di prendersi cura dei loro capelli per rispetto al defunto e per allontanare possibili pretendenti).

I famosi Cornrows, chiamati così per la loro somiglianza visiva con i campi di grano, sono trecce strette poste lungo il cuoio capelluto che, durante il colonialismo, gli schiavi portavano non solo per fini pratici durante le lunghe ore di lavoro ma come omaggio al luogo da cui provenivano.
E qui arriviamo allo schiavismo, appunto.
Quando, intorno al 1441, le donne furono deportate come schiave ad Ovest, nel “Nuovo Mondo”, il loro shock identitario passò immediatamente dai capelli.
Gli standard di bellezza nei quali si imbatterono riguardavano non solamente il privilegio di avere la pelle chiara e i lineamenti sottili ma chiome soffici, lisce e bionde.
Avere capelli naturali poteva addirittura causare la perdita del posto di lavoro, visto che quasi tutti gli schiavisti consideravano il crespo come un segno di sporcizia e sciatteria.

Le donne nere, prese in giro per quei “peli pubici” e “lana pecorina” in testa, iniziarono, ovviamente, a vergognarsi ferocemente dei propri capelli.
Poche continuarono ad onorare i costumi tradizionali africani, con i capelli intrecciati curati usando le erbe naturali degli alberi, la maggior parte scelse invece di passare alle capigliature “europee”, rimodellate con delle spazzole per la cardatura degli animali.
Non rispettando, così, la propria diversità biologica (la struttura dei capelli delle afroamericane è diversa da quella caucasica a causa della presenza del pigmento nero, essenziale per la protezione dai raggi ultravioletti) queste donne si sottoponevano a delle vere e proprie torture cinesi per lisciarsi i ciuffi, stirandoli con ferri roventi che comportavano il più delle volte arrossamenti al cuoio capelluto e bruciature delle radici se non addirittura alopecia.
Per questo motivo, nei primi anni del 1900, Annie Malone e Madam CJ Walker iniziarono a sviluppare prodotti mirati allo stiraggio.
La prima creò un trattamento chiamato “Wonderful Hair Grower“, da abbinare all’uso della piastra, la seconda il “Metodo Walker” che prevedeva l’aggiunta alla piastra di un’altra pomata.

«Hair Story, Untangling the Roots of Black Hair in America», di Ayana D. Byrd e Lori L. Tharps, è un illuminante saggio del 2001 che ricostruisce la Storia degli Afroamericani proprio attraverso i loro ricci, per secoli marcatori numero uno della propria negritudine.
Per comprendere quanto il problema fosse in primo luogo sociale, basterebbe pensare ai primi figli delle prime coppie miste nati nell’800 che, potendo “vantare” una pelle meno scura e capelli meno crespi, divennero un’elite affrancata dalla storia familiare oppure a come l’accesso a certe Chiese fosse consentito solamente a chi passava “Il test del pettine”, ovvero chi aveva i capelli troppo crespi per essere pettinati non poteva entrare (su quest’ultima cosa ha ironizzato lo stand-up comedian Chris Rock nel suo documentario “Good Hair”).
Fortunatamente con il movimento dei diritti civili degli anni ’60 e ‘70 la disturbante situazione inizia a cambiare.
Compaiono i primi slogan sulla dignità dei capelli Afro («E se tu credi di essere inferiore, allora sei molto più facile da controllare!», «Black is Beautiful!») e l’incoraggiamento alle comunità nere ad accettare i propri capelli voltando le spalle ai prodotti chimici aggressivi.
Nonostante il pubblico bianco considerasse queste acconciature come “poco professionali”, queste dichiarazioni di rivendicare le proprie radici hanno avuto fra le loro sostenitrici Angela Davis, Minnie Riperton o Diana Ross, ad esempio.

Durante gli anni ’80 e ’90, nelle comunità afroamericane iniziano ad affiorare pettinature dall’Africa Occidentale che fanno nascere nuovi centri di bellezza (iconici i “Barbershop”per uomini) progettati specificatamente per realizzare acconciature tradizionali.
Si pubblicano i primi libri illustrati e fiabe per bambini per insegnare loro sin da subito a non vergognarsi delle proprie criniere, di imparare a conoscere la Storia della diaspora africana e quindi lo spirito dei loro antenati proprio attraverso la particolarità della loro chioma (“Cornrows” di Camille Yarbough, con illustrazioni in bianco e nero di Carole Byard “, “An enchanted hair tale”, “Nappy Hair“, ad esempio) e a breve per la Sony uscirà anche il corto di animazione “Hair Love”.
Anche la fotografia si è interessata a questa peculiarità come si vede dagli scatti del 1968 del fotografo nigeriano J.D. Okhai Ojeikere o da quelli di Medina Dugger che ha celebrato le acconciature delle donne nigeriane con uno stile contemporaneo in Chroma: An Ode to J.D. Okhai Ojeikere.

Per quanto riguarda il campo della Moda, invece, persiste tristemente ancora adesso sulle copertine il diktat di rappresentare le donne afroamericane con capelli liscissimi (che a volte sono parrucche altre volte «weave», cioè una specie di extension da intrecciare ai capelli) e questo è spiacevole per due ragioni: da un lato perché alle donne nere viene trasmesso un modello di bellezza falsato che non rispecchia come sono fatte, dall’altro perché il pubblico finisce per ignorare questo disagio tanto che, tuttora, capita che queste donne coi capelli naturali continuino ad essere discriminate sul posto di lavoro o che per supportare lo stiraggio quotidiano si indebitino, visti i costi.

Come reazione a queste patetiche imposizioni della Moda, però, negli ultimi anni è nato un nuovo movimento, il “Natural Hair Movement” (o “mouvement nappy” nei paesi africani francofoni, dall’inglese nappy, che significa crespo) nel quale un numero sempre crescente di donne nere nel mondo ha incominciato ad optare per il nature look e ad usare i social network per scambiarsi consigli su come prendersi cura dei propri capelli afro e discutere di come vengono percepiti nell’immaginario collettivo.

Anche in Italia si è formata un’appendice di questo movimento chiamata Afro-Italian nappy girls, grazie ad una giovane ragazza brianzola, Evelyne S. Afaawua, che sprona le ragazze a conoscere il microcosmo che rappresentano le chiome afro e ad armonizzare la convivenza fra il mondo eurocentrico e il conservare la propria identità di nere.
I AM A CONFIDENT WOMAN! è l’attuale slogan delle donne ghanesi che da pochi anni stanno rifiutando extension, tinte e stiraggio a favore del nature look ed è quello che auguriamo anche noi di Pankhurst a tutte le donne nere, di sentirsi orgogliose esattamente di come sono.
Magari partendo proprio dai capelli.
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